STORIEDICALCIO.ALTERVISTA.ORG – Lo chiamavano “lo sceriffo”, forse perché non disdegnava di menare le mani per far trionfare la legge, ovviamente la sua. Per anni Gipo Viani fu il re del calcio italiano.
Prima giocatore, poi tecnico brillante, infine signore del mercato: nella sua parabola attraversò tutte le costellazioni del pianeta calcio, ogni volta imponendo il rilievo della sua personalità. Ma fu nelle vesti di allenatore che diede il meglio, offrendo contributi decisivi allo sviluppo del calcio italiano. La sua fu una vita senza risparmio. Era partito contadino, da Nervesa sulla Battaglia, che gli amici di bevute avrebbero ribattezzato Nervesa della Bottiglia. Con quell’armadio che si ritrovava per fisico (1,93 di altezza!) e la sete di vita che lo divorava, non poteva confinarsi tra le brume della campagna trevigiana. Voleva diventare avvocato, ma occorrevano troppi soldi. Meglio cercarli nel calcio, una delle sue precoci passioni. Così a diciassette anni, con l’aiuto della madre e di nascosto dal padre, scappò a Milano.
Donne e pallone
Il fisico imponente gli consentiva di vedere il gioco, il pallone sapeva governarlo discretamente. Si impiegò nell’Ambrosiana come mezzala, ma l’allenatore ungherese Viola decise di arretrarlo nel cuore della squadra, centromediano metodista, per compensarne la lentezza. Vinse uno scudetto, nel 1930, e prese a folleggiare nella vita notturna di Milano. Tra dolci compagnie e estenuanti sedute a biliardo e poker, faceva mattina spremendo un fisico all’apparenza inesauribile. Fu così che a ventitré anni appena gli diedero il benservito. Passò quattro stagioni alla Lazio, più una a Livorno e si concesse una comparsata di cinque partite nella Juventus ’39-40.
A trent’anni, aveva scialacquato ogni energia. Nessuno più lo voleva, lo aiutò l’amico Ottorino Barassi, presidente della Federcalcio, consigliandogli di proporsi come allenatore-giocatore scrivendo a club dì tutta Italia. L’unica risposta arrivò da Siracusa e Gipo (diminutivo di Giuseppe) fece le valigie. L’Italia piccina scivolava nel gorgo della guerra. I soldi mancavano e Viani si sobbarcava a pesanti straordinari pur di sopperire alle necessità proprie e della squadra: ogni sera a poker con gli ufficiali del porto procurava l’indispensabile per pagare stipendi e premi. Il Siracusa vinse il campionato, salvo perdere nel girone finale per un punto la promozione in B. Nel 1942-43, ancora da giocatore-allenatore, conquistò la B a Salerno, ma l’ondata della guerra cancellò i frutti del successo.
Vianema svelato
Ripartì dopo l’interruzione bellica da Benevento, dove pure vinse il girone, dopodiché nel 1947 portò la Salernitana per la prima volta nella massima divisione. Fu nell’estate successiva che, in collaborazione con l’allenatore Valese (come venne poi svelato dallo “Sport Illustrato”), Viani elaborò la sua idea tattica più originale. Capitò in un torneo estivo tra bar: Viani voleva che Valese provasse nella sua squadra il mediano Piccinini, che avrebbe voluto prendere nella Salernitana, ma la mediana era completa, mentre era libera la maglia di centravanti, per il rifiuto del titolare, tale Vincenzo Volpe, di scendere in campo contro il fratello Dante, stopper avversario. Così si decise di dare la maglia numero 9 a Piccinini, che a quel punto, crescendo un laterale, avrebbe dovuto svolgere un lavoro di copertura, arretrando e costringendo uno dei laterali a diventare terzino e un terzino a scivolare dietro a tutti a protezione generale. La cosa funzionò così bene che poi Viani decise di applicarla sistematicamente.
Era il seme del Catenaccio: il Sistema, prevedendo duelli individuali tra tutti i giocatori, privilegiava le squadre tecnicamente più forti. Ai vasi di coccio come la Salernitana non restava che potenziare la difesa e rifilare agli avversari qualche rebus tattico da risolvere. Così Piccinini aveva il numero 9, ma arretrava in mediana e lo stopper Buzzegoli, liberato da compiti di marcatura, stava davanti al portiere a spazzare l’area. La Salernitana alla fine retrocesse anche per un pizzico di sfortuna. Viani tuttavia fece tesoro della sua invenzione: la spiegò ai giornalisti, la ribattezzò “Vianema” e il suo nome uscì dall’anonimato.
Poi lavorò benissimo a Lucca e per due stagioni a Palermo, sempre in A. E quando la Roma gli affidò le speranze di pronta risalita dalla B, colse l’obiettivo con puntualità esemplare. Era maturo per il salto di qualità, cui si allenò per quattro anni a Bologna, dove stabilì una sintonia perfetta col presidente Dall’Ara. La squadra viveva a un passo dalla lotta per lo scudetto, Viani ci sapeva fare al mercato e in più le storie di donne e poker con cui allungava le notti intrigavano il presidente. Quando però arrivò la chiamata di Andrea Rizzoli dal Milan, Viani lasciò l’adorato ambiente bolognese. Era il 1956.
Aveva il monumento Liedholm ormai trentaquattrenne e il cervello Schiaffino che garantiva superba regia. Allora ebbe l’idea: lo svedese schierato come libero davanti ai difensori. Vinse lo scudetto, poi lo sfiorò per altre due stagioni, all’indomani delle quali ufficializzò la sua attività di manager, diventando direttore tecnico. All’epoca era il re del calcio italiano. Al mercato non si muoveva foglia importante che non fosse prima passata attraverso le sue manone, pronte a benedire un affare o a volteggiare minacciose nell’aria a monito dei riottosi. La Federcalcio provò ad affidargli la Grande Malata azzurra. Dapprima in commissione, assieme a Mocchetti e Biancone, ma non poteva funzionare e dopo un anno abbondante Viani tornò a occuparsi in esclusiva del suo Milan.
Poi, nella primavera del 1960, eccolo Commissario unico, con l’obiettivo di portare l’Italia ai Mondiali 1962 e al contempo allestire una Nazionale giovanile all’altezza per le Olimpiadi di Roma. Viani apprezza Nereo Rocco e lo chiama a collaborare, nasce la squadra delle grandi speranze, che incanta alle Olimpiadi e chiude al quarto posto. All’indomani di Roma, Viani rinuncia all’incarico di Ct e torna al Milan, dove l’anno dopo forma con Rocco un’accoppiata vincente: nuovo scudetto e la prima Coppa dei Campioni conquistata da un club italiano.
Poi la coppia si scinde, Rocco vuole camminare da solo, Viani ha cominciato a inciampare nelle malinconie della vita. Il suo prodigioso fisico gli ha imposto un primo stop, con un infarto in avvio dell’avventura di Rocco in rossonero. Poi la passione per la velocità nel 1963 lo ha mandato una prima volta fuori strada, nei pressi di Milanello. Fa in tempo a lanciare Liedholm come allenatore, ma la prodigiosa rimonta dell’Inter dopo il lungo braccio di ferro con Altafini gli brucia l’ambiente rossonero. Litiga con Felice Riva e se ne va al Genoa, in B, a governare il mercato.
Ma nel 1966, il 4 aprile, un terribile incidente stradale vicino a Pavia lo spinge vicino al baratro. Si salva, torna dopo mesi segnato da vistose cicatrici. A Bologna torna in panchina dopo la cacciata di Carniglia, ma ormai ha perso la sua verve. Si ritira vicino a casa, nell’Udinese. Sulla via di Bologna, dove va a segnalare i gioielli Caporale e Fedele, si ferma a Ferrara, una sera. Lascia detto che lo sveglino presto, la mattina dopo. Quando sarà impossibile svegliarlo, perché il vecchio sceriffo se ne è andato cavalcando nel sonno.
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