GLIEROIDELCALCIO.COM (Andrea Gioia)
“Tutto dipendeva dalla serietà e dalla profondità con la quale noi facevamo le cose”
Libri venduti per uno scopo nobile o forse utopistico. Libri venduti per accarezzare un sogno acerbo, diverso dagli altri. E poi un viaggio da Torino a Genova, con in tasca la curiosità da dodicenne che guarda al futuro. La squadra mista torinese contro il moderno Genoa Cricket and Football Club. La prima partita di calcio di cui si abbia notizia in Italia.
Su quegli spalti, insieme ad altri 211 spettatori, in un giorno del 1898, c’era un giovanotto piemontese con gli occhi scavati in un viso vispo e pulito. Il pioniere di uno sport che iniziava a farsi largo.
E’ bene iniziare dagli albori per raccontare Vittorio Pozzo.
“Un conservatore, un nazionalista”, parafrasando la descrizione che per lui ebbe ad usare il grande giornalista Ghirelli. Ma anche un uomo “internazionale”, un poliglotta destinato ad una vita altrove, magari in un altro continente, ma finito a rincorrere un’idea vincente, una passione seconda soltanto a quella per la montagna.
Un torinista di fede, uno dei primi a dimostrare la sua adesione a quella società nata nel 1906 in una birreria all’ombra della Mole. E arriverà ad allenarla quella squadra, nel 1912, lo stesso anno che farà da spartiacque tra il Pozzo allenatore di club e quello legato alla Nazionale.
Le Olimpiadi di Stoccolma la prima vetrina, quelle di Parigi il salto verso la svolta degli anni ’30.
Quel silenzio garbato, del giornalista prestato alla fabbrica, sarà capace di tuonare nella consapevolezza pallonara di una generazione d’oro. I ritiri utilizzati come metodo per ascoltare una sola campana, la sua; i giornali vietati per non contaminare la concentrazione; il “metodo” come credo calcistico, in un tatticismo semplice e incisivo che porterà un numero irripetibile di trionfi.
Perché Pozzo si sentiva un condottiero buono, un padre, un gestore, un comandante sicuro della sua idea. Un pò come Ferraris IV, il centromediano, collante indispensabile tra due blocchi schierati in campo.
Vincerà la prima Coppa Internazionale nel 1930, perdendo la seconda del 1932 nella grande sfida del Prater, decisa (manco a dirlo) dai due fenomeni assoluti del decennio: Meazza e Sindelar.
L’allenatore al quale va il merito di aver spostato l’attenzione delle masse dal ciclismo al calcio, nel periodo che vedeva la prima moviola nella matita di Carmelo Silva o nella voce di Carosio.
Un fiuto senza eguali per il talento, utilizzato per il lancio di uno sconosciuto Piola o di uno occhialuto studente di nome Annibale Frossi. Il primo segnerà una storica doppietta all’Austria, il 24 Marzo del 1935 (con la memoria di quel giorno cucita a mano dalla mamma sulla maglia); il secondo ci permetterà di portare a casa la prima, e finora unica, vittoria olimpica.
L’epilogo triste in un giorno del 1949. “Il Grande Torino era morto”, l’onere del riconoscimento toccava a quel signore silenzioso che più di tutti conosceva quei ragazzi. Doveva salire anche lui su quell’aereo, ma il fato non lo volle.