Le Penne della S.I.S.S.

William Garbutt, il primo Mister

Published

on

GLIEROIDELCALCIO.COM (Raffaele Ciccarelli) – Oggi è tra le figure più importanti tra quelle che vanno a formare la galassia di una squadra di calcio, ma agli albori di questo sport l’allenatore di calcio nemmeno esisteva, o almeno era una figura molto marginale, anche nella stessa Inghilterra che aveva, in pratica, inventato il calcio moderno.

Uno dei primi professionisti che venne ad allenare in Italia proprio dalla Terra d’Albione fu William Garbutt.

Giocatore di buon livello, nel 1912 fu ingaggiato dal Genoa ancora nel pieno dell’attività agonistica, ma costretto al ritiro a causa dei tanti infortuni.

Con i liguri introdusse nuove metodiche di allenamento vincendo tre campionati, passò poi alla Roma per due stagioni prima di arrivare al Napoli, ingaggiato dal presidente Giorgio Ascarelli per guidare i partenopei nel primo campionato a girone unico, nel 1929/1930.

Essendo Garbutt inglese, fin dall’inizio fu chiamato “mister”, e quella dizione è rimasta fino ad oggi, definendo per antonomasia gli allenatori di calcio.

Con Garbutt la figura dell’allenatore dà una decisa sterzata verso il professionismo, nel calcio dell’epoca: “L’allenatore diventa il tecnico chiamato a educare fisicamente i giocatori. Nel mondo dei dirigenti di calcio dove domina l’idea positivistica del progresso e della cultura tecnologica, viene considerato essenziale l’apporto dei tecnici stranieri, in primo luogo degli inglesi e dei danubiani, capaci di impostare metodi e organizzazione ancora sconosciuti ai calciatori locali”.1

Era un calcio ancora in divenire, quello degli anni Trenta, ma un mondo in fibrillazione, ricco di entusiasmo che, come dice lo stesso Garbutt “grazie a quello che ha saputo fare la Federazione del Calcio, e grazie alla passione delle folle sportive italiane, il gioco del calcio ha dilagato fino a diventare senza dubbio oggi il più popolare degli sports. Naturalmente, accanto ai progressi quantitativi, sono stati fatti anche fantastici progressi di qualità”.2

Idee chiare, amante della tattica ma non schiavo di essa, perché molto puntava sulle qualità tecniche e sul miglioramento di queste da parte dei suoi giocatori.

In tal senso egli introdusse nuove metodiche di allenamento, sconosciute all’epoca, intuendo che la vera evoluzione del calcio poteva avvenire solo attraverso la professionalizzazione dei giocatori.

Questo modo rigoroso e professionale di vedere il calcio si scontrava con quella che era la mentalità dei giocatori dell’epoca, la maggior parte dilettanti e con un modo di giocare piuttosto autarchico, spesso nei giocatori più bravi, i cosiddetti fuoriclasse.

Questo il suo discorso d’esordio al suo arrivo a Napoli: “Per fare una grande squadra ci vogliono grandi giocatori. Questi, quando mescolano vigore atletico e qualità tecniche, diventano fuoriclasse. Non sempre, però, molti fuoriclasse formano una grande squadra. Perciò, se tra di voi c’è qualche fuoriclasse, lo sopporterò e punterò su quelli che hanno innanzitutto grande coraggio, grande cuore e grande voglia di battersi. Chi non ha queste virtù può salutare e andarsene. Quelli che intendono restare verranno nella mia stanza tra dieci minuti perché voglio conoscervi uno a uno”.3

Seguendo questo credo, una squadra abbastanza slegata e che aveva tra le sue fila un solo fuoriclasse, Attila Sallustro, grazie anche all’impegno del presidente Ascarelli che rinforzò la rosa, entrò nell’elite del neonato campionato di Serie A a girone unico, con la ciliegina di due terzi posti, nella stagione 1932/1933 e in quella 1933/1934.

Chiare le sue idee anche sul modo di far giocare la squadra: “Per quanto riguarda il sistema, io ritengo che il gioco inglese, quello che oggi io faccio svolgere al Napoli, sia superiore al calcio

scozzese, che fu portato a Vienna dagli allenatori scozzesi, e ormai domina il calcio austriaco, e non questo soltanto. Come sapete, col gioco scozzese, soltanto tre avanti, il centro e le due ali, giocano in profondità. Le due mezze ali giocano arretrate e fanno la spola. Naturalmente col gioco inglese si ha un respiro più ampio di azioni. Sono cinque uomini che partecipano all’azione della loro linea, quasi sempre. È logico che, per giocare con un tale sistema, si deve disporre di un’ottima linea mediana. Ma è ormai fuori discussione che, per essere una grande squadra, bisogna avere una grande mediana”.4

Idee offensive e in alcuni casi sorprendentemente attuali, che fecero la fortuna della squadra partenopea.

Garbutt allenò per sei stagioni il Napoli, fu CT della Naionale italiana tra il 1913 e il 1914, collaborando anche con il CU Vittorio Pozzo ai Giochi Olimpici del 1924, poi andò a Bilbao, dove contribuì a far vincere il primo titolo spagnolo della sua storia all’Athletic, e ancora in Italia, al Milan e al Genoa.

Scampato agli orrori della guerra, ritornò in Inghilterra nel 1951, dove morì, a ottantuno anni, nel 1964.

 

1 P. Lanfranchi, Newsletter n. 4 del 30/06/2000, su: www.settoretecnico.figc.it

2 Lo Sport Illustrato, 30 novembre 1932

3 M Carratelli, La grande storia del Napoli, Gianni Marchesini Editore, S. Lazzaro di Savena (Bo), p. 41

4 Il Calcio illustrato, 30 novembre 1932, p. 7

 

Bibliografia

M. Carratelli, La grande storia del Napoli, Gianni Marchesini Editore srl, S. Lazzaro di Savena (Bo), 2007

Il Calcio Illustrato

La Gazzetta dello sport

Lo Sport Illustrato

www.magliarossonera.it

www.settore tecnico.figc.it

 

 

più letti

Exit mobile version