GLIEROIDELCALCIO.COM (Massimo Prati) – Un giorno allo scrittore argentino Osvaldo Soriano capita di entrare in un supermercato insieme ad un suo amico, José Sanfilippo, che era stato un giocatore di calcio del San Lorenzo. E il caso vuole che l’area in cui era stato costruito quel centro commerciale fosse stata occupata, anni prima, proprio dallo stadio del San Lorenzo.
Così, nel simpaticissimo e divertente racconto di Soriano, girando alla ricerca di un prodotto, piuttosto che un altro, iniziano ad affiorare i ricordi. Là dove si trovano i salami e i formaggi, anni prima c’era stato il campo di gioco.
Ed allora, mentre tutto intorno è un circolare frenetico di clienti con carrelli pieni di scatole, latte e verdure, al vecchio goleador viene in mente una sua mitica rete in un’altrettanto mitica sfida del 1962, contro il Boca Juniors.
Il vecchio bomber indica i tubetti di maionese, nello scaffale a mezza altezza sul muro, e dice a Soriano: “ Il mio compagno di squadra fece un lancio e mi mise la palla lì”. La gente in coda alla cassa, intanto, incomincia a seguire il racconto, tra l’imbarazzato e lo stupito. Ma l’ex-giocatore continua imperterrito nel suo racconto : “ La palla superò i difensori avversari, rimbalzò là dove ci sono le confezioni di riso e io la colpii molto forte ”.
A quel punto del racconto, la parola passa dal giocatore allo scrittore : “Sanfilippo fece il gesto di calciare, e a noi tutti sembrò di vedere il pallone andare ad insaccarsi vicino ai bilama e alle casse. Ci fu un momento di esaltazione generale che coinvolse tutti, clienti e commessi. E tutti si misero ad applaudire. La vecchia stella del San Lorenzo mi aveva fatto rivivere l’emozione di un gol, segnato anni prima ”.
Inizialmente, la ricostruzione di quel fatto sportivo era una semplice testimonianza, che faceva parte del carteggio tra due grandi scrittori. La storia di quel gol fu infatti raccontata in una lettera scritta da Osvaldo Soriano e inviata all’amico Eduardo Galeano. Ma quest’ultimo decise di pubblicarla nel suo libro Miserie e Splendori del Gioco del Calcio, trasformando così l’aneddoto in breve racconto.
E quel racconto mi era rimasto impresso almeno per due motivi: da un lato per l’originalità dell’ambientazione (la cronaca di un gol a partire dallo shopping in un supermercato), dall’altro perché uno stadio glorioso, teatro di epiche imprese, fagocitato dallo sviluppo urbanistico di una città, mi sembrava un po’ lo specchio dei tempi.
Se penso a Genova e agli odiati rivali, per esempio, mi vengono in mente i due campi della Sampierdarenese: il primo, di fronte a Villa Scassi, costretto negli anni Trenta a lasciare spazio alla costruzione di una strada a scorrimento veloce, Via Antonio Cantore, destinata a collegare il centro alla parte occidentale della città ; l’altro, a Cornigliano, che nel secondo dopoguerra fu trasformato in un deposito per autobus.
Ma quello che non sapevo, e che ho scoperto solo in anni recenti, è che uno dei primi campi di calcio in Italia, se non addirittura il primo in assoluto ce l’ho avuto sotto al naso per quasi cinquant’anni, e non me n’ero accorto.
Tutto è iniziato quando ho deciso di comprare un regalo ai miei nipotini. Giustamente, un tifoso rossoblù una volta ha detto che i bambini genoani devono diventare tali da piccoli, perché se crescono, incominciano a ragionare e a fare due conti, è molto probabile che finiscano per scegliere un’altra squadra. Così, per mettermi al sicuro ho deciso di regalare a Noemi e Mattia l’album delle figurine del Genoa. E naturalmente, prima di consegnarlo ho deciso di dargli un’occhiata.
Con mio grande piacere, ho scoperto così che i responsabili dell’iniziativa editoriale avevano fatto un lavoro di ricerca eccellente. Avevano incrociato dati diversi (testimonianze dei protagonisti di allora, vecchi documenti contabili, planimetrie dell’epoca) per arrivare alla conclusione che il primo campo del Genoa, corrispondeva all’isolato dove ero nato e cresciuto e dove la mia famiglia vive da più di cinquant’anni.
Ad essere precisi, il nostro appartamento, al numero uno, può essere situato in un’area che, approssimativamente, si collocava tra il cerchio di centrocampo e la tre quarti. Con un po’ di compiacimento ed anche una punta d’orgoglio mi è venuto da pensare che avevo tirato il miei primi calci al pallone nello stesso luogo dove avevano giocato i pionieri del football italiano.
Nel cortile davanti a casa ho iniziato a giocare nella seconda metà degli anni Sessanta. Genova è una città avara di spazi, dove i bambini sono costretti a giocare nei vicoli, in mezzo alle macchine, su strade in pendenza o nei campi sovraffollati di qualche parrocchia. Noi invece, gruppo di una trentina di ragazzini, potevamo considerarci davvero fortunati. Davanti a casa avevamo uno spiazzo enorme per giocare a pallone, talmente grande (100 metri di lunghezza per 30 di larghezza) che, in lunghezza, ne utilizzavamo solo metà, ritrovandoci comunque in un campo di 50×30.
Era un luogo tranquillo, al di fuori del traffico, protetto da 6 palazzi a levante, quattro a ponente, uno a nord ed uno a sud. In quei palazzi abitavano solo famiglie operaie, principalmente ferrovieri ma anche lavoratori siderurgici delle acciaierie Italsider, portuali della Compagnia Unica, operai delle officine meccaniche Ansaldo e qualche marittimo. Queste erano le categorie che rappresentavano quasi esclusivamente gli abitanti dell’isolato ed eccezioni ce n’erano davvero poche. I 6 palazzi dei ferrovieri furono costruiti nel 1919, gli altri edifici circostanti nel 1957. Quindi, ai tempi delle prime partite di football, quell’area era meno edificata e molto più vasta di quanto non lo sia al giorno d’oggi. Era la Piazza d’Armi di Sampierdarena o, ancor meglio, di Campasso. Ma in realtà, più che una piazza vera e propria, era una spianata lunga diverse centinaia di metri e assolutamente priva di edifici. Era chiamata così perchè, a partire dal diciottesimo secolo, era stato un luogo utilizzato per operazioni ed esercitazioni militari. Dopo che il Genoa trasferì nel 1898 il suo campo a Ponte Carrega, in Valbisagno, nella parte opposta della città, la Piazza d’Armi divenne il primo campo della Sampierdarenese. C’è chi nella storia ha sempre il ruolo di apripista e chi, eterno secondo, è destinato a restare nell’ombra ed occupare gli spazi lasciati da altri. Come ricordato in uno striscione in un derby : “ I grandi fanno la storia, gli altri la studiano ”.
In quel campo ho dunque giocato a partire dagli anni Sessanta. E tra quei bambini c’era anche chi aveva talento e in seguito avrebbe giocato nelle giovanili del Genoa e della Sampdoria. C’era un portierino formidabile che a diciott’anni sarebbe stato addirittura ingaggiato dal Milan ; sfortunatamente per lui, le sue indubbie doti tecniche non erano accompagnate dalla sufficiente maturità, e finì per farsi rovinare dai vizi. Altri ancora ingrossarono le file delle squadre genovesi minori (Gruppo C, Don Bosco, Rivarolese). Insomma, si giocava in cortile ma il tasso tecnico era piuttosto elevato. Non c’era nessuno, ma proprio nessuno, interessato allo sci, al tennis, alla pallacanestro o alla pallavolo. Per noi non esisteva che il calcio. Ricordo ancora con quanto entusiasmo e interesse seguivamo (pur essendo dei bambinetti) i mondiali di Messico ’70. Pelé, naturalmente, era la star del torneo, ma rammento che, nella mia mente di bimbo di sette anni, ciò che mi colpiva di più erano i numeri di un giocatore incomprensibilmente finito nel dimenticatoio (almeno in Europa, giacché nel suo paese credo nessuno l’abbia dimenticato). Sto parlando di Rivelino.
Il brasiliano era un vero poeta del calcio. Aveva capacità tecniche, potenza fisica, controllo di palla incredibili ed una buona dose di cattiveria. Ricordo che in una partita “ accarezzò ” la parte superiore della palla con la suola della scarpa destra, facendo rapidamente rimbalzare il pallone in alto, verso la parte interna della sua caviglia e poi scappò sulla sua sinistra mentre l’avversario rimase piantato sul posto, senza avere avuto il tempo di capire cosa fosse successo. Poco dopo, ebbe un altro colpo di genio : fece una serie di finte ad un avversario per fargli allargare le gambe e provare un tunnel. Ma questo non voleva cadere nel trucchetto e rimaneva con le gambe ravvicinate e ben piantate sul terreno. Allora Rivelino decise intenzionalmente di tirare il pallone sulla gamba destra del giocatore rivale, di farla rimbalzare e d’impossessarne di nuovo, il tutto ovviamente in un batter d’occhio. Il diversivo colse completamente alla sprovvista l’avversario, che ancora una volta rimase piantato sul posto mentre Rivelino stava già puntando la porta.
Il giorno dopo in cortile, durante la solita partita estiva, Sergio di 9 anni provò il numero della parte interna della caviglia e Maurizio di 8 tentò quello del rimbalzo della palla sulla gamba dell’avversario : non ero l’unico ad essere stato impressionato dai numeri del brasilero. Ai giovani che, per evidenti ragioni anagrafiche, non hanno mai sentito parlare di Rivelino, consiglio di scrivere su un motore di ricerca : “ Rivelino – A Patada Atômica ” e di godersi lo spettacolo.
Insomma, naturalmente ho ricordi piacevoli di quel campetto di periferia davanti a casa. Ricordi che oggi si mischiano all’emozione di aver scoperto che molti decenni prima in quello stesso rettangolo di gioco era nato il calcio in Italia. Così, pur essendo una persona piuttosto razionale e poco incline a suggestioni o evocazioni di spiriti ed entità varie, ho deciso di ipotizzare che, a distanza di 125 anni, i protagonisti di quegli epici incontri possano tornare in questo luogo e spiegare a me, e a chi mi ha trasmesso l’amore per il Grifone, come è iniziata la storia.
Allora, provo ad immaginare. Sono nella casa dei miei genitori con il mio prozìo Attilio, portuale genovese nato nel 1900 e primo genoano della famiglia. Nella stanza c’è pure mio padre, portuale anche lui, e poi ci sono io. Tre generazioni di genoani che corrispondono quasi completamente alla storia ultracentenaria del Grifo. Stiamo aspettando George Dormer Fawcus e George Edward Blake. Ci parleranno della prima partita del Genoa.
Eccoli, arrivano, salutano, entrano. Incomincia a parlare George Blake : “ Volevate dunque sapere della prima partita di calcio. Giovedì 7 settembre 1893 fu fondato il club ed il sabato successivo, secondo la tradizione inglese, fu stabilito di giocare il primo incontro nella piazza d’armi del rione Campasso, proprio qua di fronte al vostro portone. Arrivammo tutti in tarda mattinata, verso le undici e trenta, con i giocatori della squadra avversaria. Si andò tutti insieme in trattoria dalla Gina, a duecento metri da qui, all’altezza del primo semaforo, in direzione di Via del Campasso. A quei tempi non si seguivano diete particolari. Al contrario, si mangiava senza badare troppo alle calorie. Per noi, cittadini britannici, i prodotti tipici della vallata erano delle delizie : corzetti alla polceverasca, salame di Sant’Olcese e bianco di Coronata. Si mangiava intorno a mezzogiorno, ma si restava a tavola a chiacchierare ancora un po’, per favorire la digestione. Alle due cominciavano i preparativi : con la calce si tracciavano le linee del terreno di gioco, e poi si sistemavano le sedie ai bordi del campo per gli spettatori e le autorità. Ricordo anche come a volte dall’omnibus o dal tramway scendessero passeggeri incuriositi, che poi decidevano di fermarsi, e seguire interamente l’incontro ”.
A questo punto, George Blake lascia la parola a George Fawcus: “ La prima partita la giocammo contro una formazione mista di tecnici inglesi della fabbrica Wilson e McLaren e operai genovesi che si erano appassionati a quello che allora era uno sport nuovo. Avevano imparato bene e in fretta. Il fair play era più importante del risultato in sé, e se qualcuno di noi sfoggiava un bel numero da un punto di vista tecnico, anche gli avversari italiani si complimentavano in lingua inglese, dicendo ‘nice sir !!’. E quel ‘nice’, nel senso di ‘ bello’ stava ad intendere ‘ bel tiro !’ oppure ‘ gran bel passaggio !’.
Comunque, gli operai della fabbrica aveva imparato molto bene i fondamentali e, complice la loro giovane età e la conseguente potenza fisica, quel giorno ci trovammo in difficoltà. Eravamo superiori tecnicamente, visto che praticavamo il football da tempo, ma non riuscivamo a passare in vantaggio. Poi, verso il novantesimo, un rimpallo a nostro favore. La palla arrivò più o meno dove avete appeso quel bel quadro del porto di Genova, qui nell’ingresso di casa vostra. Blake stoppò il pallone di petto e fece un lancio in diagonale sulla tre quarti. Io ero pronto a ricevere. Mi trovavo una dozzina di metri più avanti, cioè dove oggi c’è il vostro salotto, molto vicino a quel tavolino con le bottiglie di vermentino. Controllai di sinistro e calciai forte di destro. Uno a zero per noi. Strette di mano e partita finita”.
E a quel punto mi riprendo da questo viaggio nel tempo. Ho ancora in testa le parole del primo cannoniere del Genoa : “Uno a zero per noi e partita finita”. D’accordo con lei, Mister Fawcus : partita finita. La leggenda però stava solo per cominciare.
N.B: l’articolo è un capitolo del libro “I RACCONTI DEL GRIFO – Quando parlare del Genoa è come parlare di Genova” di Massimo Prati. Ringraziamo l’autore che ci ha dato la possibilità di pubblicare alcuni capitoli del libro e questo è il terzo appuntamento. Per acquistare il libro, potete rivolgervi all’Associazione Un Cuore Grande Cosi – Onlus (www.uncuoregrandecosi.it – mail: info@uncuoregrandecosi.it)
Qui puoi trovare il primo articolo tratto dal libro “I racconti del Grifo” di Massimo Prati , qui il secondo